20 dicembre 2024 – Notiziario Africa

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  • Ghana e il riconoscimento che Unesco fa dell’antica tradizione del Kente come patrimonio dell’umanità
  • Italia: a Roma con una mostra che ci porta in Senegal.
  • Madagascar: Loya e  Remanindry ci regalano in questo fine 2024 un album, Blakaz Antandroy, che Ennio Bruno, sul Giornale della Musica, descrive come uno dei più affascinati di quest’anno.
  • Botswana: l’arte delle donne

Un’edizione festiva tutta dedicata alla creatività e all’arte di un continente vasto e ricchissimo che non è solo guerra e fame. C’è un’altra Africa, ed anche questa non si racconta. Oggi, 20 dicembre 2024, lo facciamo qui.

Questo e molto altro nel notiziario Africa, a cura di Elena L. Pasquini su Radio Bullets

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“Ci hanno educati a essere copie inferiori degli inglesi, caricature da deridere con le nostre false arie da alta borghesia britannica, le nostre sgrammaticature e i nostri modelli distorti pronti a tradirci ad ogni passo.

Non eravamo né carne né pesce. Non ci fu concesso di conoscere il nostro passato africano e ci fu fatto sapere che non avevamo un presente. Quale futuro potevamo aspettarci?

Ci insegnarono a giudicare barbare e primitive la nostra cultura e le nostre tradizioni”.

Così scrive in Africa Must Unite, Kwame Kkrumah, il primo Primo ministro e poi presidente del Ghana, l’ex colonia della Costa d’Oro. Quello sguardo sull’Africa, colonialista ed eurocentrico, non ha smesso di nutrire stereotipi e pregiudizi, e a fare della storia e dell’arte africana, una periferia culturale.

Kente, patrimonio dell’umanità

Un uomo dopo l’altro sulla passerella, indossano abiti con stoffe colorate. È la collezione autunno-inverno del 2021 di Louis Vuitton. Virgil Abloh è allora il direttore artistico della moda maschile della casa francese e i capi dei suoi modelli sono realizzati con un’arte antica: il Kente.

Strisce di cotone, o persino seta, intrecciate a mano, una tradizione preservata per secoli in Ghana che è stata riconosciuta dall’Unesco Patrimonio Intangibile dell’Umanità in questa fine dell’anno.

L’arte del Kente, tessuti che sono storie e bellezza, è stata trasmessa di generazione in generazione, arricchita poi dalla creatività e dalle capacità innovative di un popolo che l’ha sempre utilizzata per raccontare se stesso, esprimere i suoi valori sociali, estetici.

Tipica delle regioni di Ashanti e del Volta era simbolo di sacralità e regalità, vestiva i re ashanti ed è diventato espressione di un’identità collettiva. Esistono centinaia di modi per intrecciare i tessuti, modelli e colori, ciascuno con il suo significato. “Sia le donne che gli uomini sono coinvolti nel processo di produzione …

Ogni comunità di produttori è guidata da un capo tessitore, che è responsabile della regolamentazione degli standard di produzione, della risoluzione dei conflitti tra i tessitori e della creazione di collegamenti e reti per l’acquisizione di conoscenze e il commercio.

Il Kente è un mezzo di comunicazione e un veicolo di trasferimento e scambio di informazioni. Serve anche come mezzo di costruzione dell’identità, riflettendo le storie sociali delle varie comunità”, spiega l’Unesco.

Il Kente racconta lo stato sociale di chi lo realizza o usa, ne indica il ruolo, accompagna riti di passaggio, evoca memorie del passato, veicola detti, proverbi, adagi che hanno costruito nel tempo la società.

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Quando Luois Vuitton lo scelse per la sua collezione, si guadagnò il plauso di molti e critiche di chi la ritenne appropriazione di una cultura altra, anche se il Ghana era il paese di origine di Abloh.

“L’uso del Kente gli consente di fare riferimento alle sue origini africane. Penso che sia del tutto legittimo usare un tessuto che appartiene alla sua cultura, alla sua identità africana. Penso che sia importante che Virgil Abloh faccia questo per introdurre la nostra cultura in questo pantheon della moda internazionale”, aveva detto Aristide Loua, fondatore del marchio ivoriano Kente Gentleman, alla rivista Fashion United.

Il Kente, ricorda ancora la rivista, fu indossato “dai membri del Congresso americano per denunciare il razzismo nella società americana in seguito all’omicidio di George Floyd da parte di un poliziotto bianco”.

Musica, Madagascar

Lui è francese, nato nell’isola de La Réunion. Loro sono una famiglia del popolo Antandroy del Madagascar. Loya e  Remanindry ci regalano in questo fine 2024 un album, Blakaz Antandroy, che Ennio Bruno, sul Giornale della Musica, descrive come uno dei più affascinati di quest’anno, dove “le tradizioni sciamaniche del popolo Antandroy del Madagascar si fondono con la modernità della musica elettronica, dando vita a qualcosa di incredibilmente potente”.

Sulla terra rossa degli antenati, i Remanindry danzano sotto le stelle

Da loro non si cammina, prima di tutto si danza

 Perché la terra, il cielo, gli spiriti – tutto è movimento

Recita così il testo del primo singolo, “Hoy Aho Neny”, “Oh mamma!”, dedicato alla madre, custode della vita, delle tradizioni, consigliera.

E poi, in “Be Sadia”, il secondo brano rilasciato, si  “rende omaggio ai tessuti antichi, veri testimoni della storia e dell’identità culturale dei malgasci”, scrive ancora Bruno. Il filo lo chiamano fole velo, filato vivente, e si crede abbia un grande potere spirituale tanto da essere utilizzato in diverti rituali. A

i canti rituali attinge infatti questa musica radicata nella tradizione sciamanica di un popolo il cui nome significa “popolo delle spine”. Abitano il sud dell’isola, terra difficile, “spinosa”, poverissima.

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Ad accompagnare la musica strumenti tradizionali, il kabotsy, la chitarra dell’isola nell’oceano, quell’Oceano che Loya da sempre esplora con la sua musica, e il lokanga, il violino malgascio.

“È con immensa gioia che vi annuncio l’uscita del mio nuovo album Blakaz Antandroy, realizzato in collaborazione con la famiglia Remanindry. Questo progetto, nato nel 2019, è il frutto di un’esplorazione profonda delle musiche tradizionali del Madagascar, arricchita dalle sonorità del mio sintetizzatore modulare.

Il risultato è un incontro vibrante e inedito tra le tradizioni musicali ancestrali e le tessiture della musica elettronica. Blakaz Antandroy incarna contemporaneamente un ritorno alle radici e una reinvenzione del mio universo musicale, tessendo un ponte tra passato e futuro, tradizione e modernità.

Vi invito a immergervi in questo universo sonoro unico!”, scrive Loya sul suo profilo Facebook annunciando l’uscita dell’album.

“Questo è un disco che genera una transe (alla francese) da cui non si vuole più uscire, è un’esperienza musicale entusiasmante e, per quanto mi riguarda, la scoperta più importante del 2024”, conclude Bruno.

Fografia, Costa d’Avorio

Abobo è un quartiere popolare di Abidjan, in Costa d’Avorio, un quartiere operario. Ogni anno diventa teatro di un festival della fotografia tra i più prestigiosi, l’Africa Foto Fair.

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L’organizza una donna, Aida Muluneh, etiope, che ha lasciato il suo Paese quando era ancora una bambina, ha girato il mondo, è tornata a casa ed è diventata una delle più interessanti esponenti della scena fotografica africana.

“In Africa c’è sempre la percezione che l’arte sia solo per l’élite… queste sono le cose che cerco di cambiare in quello che faccio”, dice a The Guardian che al festival di quest’anno, conclusosi a fine novembre, dedica un racconto in parole e immagini.

“Quando ho fatto la prima edizione, molte persone dicevano oh, è troppo lontano e la zona [ha una reputazione]”, aggiunge Muluneh.

Un quartiere dalla pessima reputazione, appunto, che però, ricorda il quotidiano britannico, è pieno di talento: da qui arriva Mohamed Aly Diabaté, documentarista e fotografo, qui ha aperto la sua sede un grande museo come il Museo della Cultura, delle Arti Contemporanee e Tradizionali Adama Toungara, e da qui arriva Gervinho, l’ex attaccante dell’Arsenal.

Quasi 12 mila visitatori, per l’edizione 2024, che crescono sempre di più: l’Africa Foto Fair è orami un appuntamento fisso da ventiquattro anni, da quando fu fondato nel 2010 come Addis Foto festival, per diventare poi continentale e culla, casa, per una nuova generazione di artisti e narratori per immagini.

“Nel contesto dei media internazionali, specialmente nel caso di immagini dall’Africa, lo sguardo straniero è ancora la voce prevalente per storie che spesso si basano su un pregiudizio innegabile”, aveva detto in un’intervista a Lens Culture, Muluneh, alcuni anni fa.

Ed è ancora così tanto che è sempre The Guardian a titolare in questi giorni: “Non c’è bisogno di far arrivare qualcuno da fuori per raccontarci le nostre realtà”.

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“Ciò che ho imparato è che per affrontare la mancanza di diversità, il fondamento di questo movimento può derivare solo dalla nascita di istituzioni educative non solo nella fotografia ma anche nei media e nella comunicazione”, si legge sempre su Lens Culture. P

er questo, raccontava ancora Muluneh, è nato Addis Foto Festival, “dalla consapevolezza che … non è solo una questione di educazione dei fotografi … ma che dobbiamo anche educare il grande pubblico sul ruolo e le applicazioni della fotografia in Etiopia”.

E nel resto dell’Africa. Etiopia che è la sua casa e senza la quale non sarebbe diventa ciò che è: “Non credo che avrei prodotto lo stesso lavoro se non avessi scelto di tornare nel mio luogo di nascita. Ho trascorso la maggior parte della mia vita a immaginare, sognare e impegnarmi in un dialogo con l’Etiopia”.

Mostre, Germania

Il Togo era una colonia tedesca. Nel cimitero di Saarlouis nel Saarland c’è una tomba di uomo che viene da lì: “Qui riposa in Dio il mio caro N**** I Chim Bebe.

Sono morto nel 1912 all’età di 26 anni”. Ed è nel Saarland in Germania che l’Africa torna a raccontarsi e a raccontare questa relazione con l’Europa in una mostra che sfida gli stereotipi.

Ventisei artisti dal continente, ma anche dalla sua diaspora, esposti al Völklinger Hütte, stabilimento siderurgico che è stato il primo monumento industriale ad essere incluso nella lista del patrimonio mondiale dell’UNESCO, nel 1994.

Un luogo che fu un inferno per chi ci lavorava, e che fu simbolo delle ragioni profonde delle guerre che hanno attraversato l’Europa e il mondo.

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C’’è tempo fino al 17 di agosto per visitare “The true size of Africa”. “ Sebbene tutti noi abbiamo le nostre origini in Africa e la cultura egizia ci plasma ancora oggi, mentre i granai dell’Impero romano si trovavano nel Nord Africa e potenti regni africani prosperarono durante il Medioevo, l’Africa è stata raffigurata sulle mappe del mondo fin dai tempi di Mercatore come più piccola delle sue dimensioni reali e il continente continua a essere sottovalutato sia nella sua portata geografica che nel suo significato per la storia mondiale, nonostante il suo ruolo preistorico come luogo di nascita dell’umanità”, scrivono gli organizzatori.

L’Africa si racconta in Germania a 140 anni dalla Conferenza del Congo, che a Berlino, nel 1884 divise il continente tra le grandi potenze europee lasciando finire il Congo nelle mani di Leopoldo II del Belgio e del suo regime brutale che è ancora oggi alle radici di una guerra infinita.

“Vogliamo essere un’apertura degli occhi, non solo una festa per gli occhi. Vogliamo commuovere e ispirare in egual misura”, afferma Ralf Beil, direttore generale del sito e curatore della mostra.

Sculture e oggetti africani che dialogano con le macchine e i volani della storica sala soffiatori, per un’indagine sul passato e presente dell’Africa. “L’idea centrale di questa struttura espositiva è un’inversione metodica della prospettiva.

La modernità industriale, che ha ripetutamente oscurato l’Europa, incontra una cultura africana poliedrica e illuminante”, afferma ancora Beil.

E poi, opere d’arte contemporanee, installazioni sonore e spaziali. “Stiamo presentando nuove storie dall’Africa per contrastare la grandiosa, spesso idealizzata narrazione della civiltà occidentale: storie che ci offrono uno specchio per l’autoesame e l’autoconsapevolezza”, aggiunge.

Tra le opere in mostra quella di Emeka Ogboh, “The Land Remembers”, creata appositamente per questo evento. Un’opera sonora in cui si ascolta una canzone dei minatori, una canzone tedesche, lo “Steigerlied”, cantata in oshivambo, una lingua della namibiana con un testo scritto da Emeka che “racconta di confische di terre coloniali, sfruttamento, ferite e rinascita.

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In questo modo, un elemento del patrimonio immateriale della Germania diventa una canzone africana, che riflette un passato condiviso”. È così che inizia il percorso, tra passato, presente e futuro.

“Gli artisti della mostra a Völklingen ci offrono uno specchio, ci aprono gli occhi sulla visione del mondo eurocentrica, suscitano curiosità, celebrano la propria cultura e storia in modo autoironico, sicuro di sé e orgoglioso e incoraggiano” il confronto, ha scritto Weber-Schäfer su Wir im Saarland.

L’arte delle donne, Botswana

Un’enorme tela bianca, il pennello lo tengono in mano le donne del Botswana. Tengono in mano le loro storie, visioni, e il diritto ad esprimere se stesse. Sono le donne San, una comunità nell’occidente del Paese.

A loro è stata dedicata una mostra, “The Women of Kuru: The Gathering” che per la prima volta celebra il contributo delle artiste nella scena culturale del Paese. Artiste troppo spesso ai margini.

È durata un paio di settimane, a novembre, allestita da ReCurate, un’agenzia guidata da donne.

Una settantina di nomi, tra coloro che fanno parte del collettivo Kuru Art Project, fondato nel 1990, e che sostiene gli artisti, donne e uomini, della comunità San di D’ka. Le donne, però, sono sempre rimaste più in ombra degli uomini.

Serve raccontare le genesi di questa mostra, perché parla di una necessità: dare alle artiste spazio per far ascoltare la propria voce. Secondo la curatrice Renee Eisen-Khonat, “la decisione di fare una mostra collettiva riservata alle donne è nata durante una visita al Kuru Art Project poco più di un anno fa”, come si legge su Art Africa Magazine.

“Nell’interazione diretta con le artiste, mi sono immedesimata nella loro etica del lavoro e nel loro desiderio di avere più opportunità di mostrarlo.

È stato quasi istintivo che una mostra dedicata alla voce “femminile” di Kuru dovesse avvenire”.  Donne, spiega Eisen-Khonat, i cui lavoro è centrato sulla conservazione di un antico patrimoni. “Il loro lavoro è il mezzo con cui sostengono le loro famiglie, ma funge anche da banca della memoria culturale”, dice.

“L’empowerment degli artisti indigeni – si legge ancora su Art Africa Magazine -, in particolare delle donne, può però spesso sconfinare nel terreno problematico dell’infantilizzazione.

L’inquadramento dei gruppi emarginati come bisognosi di “salvataggio” rischia di perpetuare stereotipi dannosi, in particolare in contesti in cui le disparità economiche si intersecano con le narrazioni cultural”. La riposta è dare loro voce, la possibilità di narrarsi oltre questi stereotipi.

Mostre, Roma

Mito e contemporaneità nel dialogo tra Soly Cissé e Seyni Awa Camara per esplorare la condizione umana, il suo trasformarsi nella relazione tra l’umano e il selvaggio. I due artisti senegalesi sono a Roma, fino al 30 di gennaio con la mostra Ancestral Metamorphosis alla Black Liquid Gallery.

Passato ancestrale e futuro in cui realtà e immaginazione, naturale sovrannaturale si dissolvono, attraverso due linguaggi all’apparenza lontani e distanti, la pittura di Cissé e l’argilla di Camara.

“Le creature ibride e oniriche di Cissé trovano un contrappunto nelle figure scultoree di Camara, dense di simbolismo e cariche di una potenza arcaica che celebra la vita, la resilienza e il dialogo con il mondo spirituale. Entrambi gli artisti utilizzano il concetto di metamorfosi come strumento per mettere in discussione l’identità e il significato dell’essere umano, trasformando i loro materiali – pittura e argilla – in veicoli per raccontare storie universali”, scrivono i curatori della mostra.

Soly Cissé ci conduce in un viaggio nell’inconscio attraverso la fusione di forme umane e animali, “creature ibride che narrano una trasformazione perenne”, si legge ancora. “L’arte di Soly Cissé non cerca di rappresentare la natura o la realtà tangibile, ma si muove sul piano dell’immaginazione e del mito …

Nelle sue opere, il mito e la tradizione africana si amalgamano con un linguaggio espressionista e fortemente evocativo”.

Seyni Awa Camara, invece, “attinge alle radici primordiali della cultura umana, plasmando sculture che sembrano appartenere a un tempo mitico. Come la Venere di Willendorf, le sue opere celebrano la fertilità e l’energia creativa, ma il suo linguaggio si estende ben oltre, affrontando la relazione tra gli esseri umani e le forze invisibili che governano la loro esistenza”.

A Roma, Black Liquid Gallery, Via Piemonte 69, dal martedì al sabato dalle 12 alle 19.

Foto di copertina: Foto di Ato Aikins su Unsplash

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