Archeologia glaciale cosa è lo studio che riscopre mondi perduti in alta quota

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In Italia sono 903, di cui uno solo sugli Appennini, i restanti 902 si trovano sulle Alpi. Sono i ghiacciai alpini, oggi a rischio di fusione per effetto del cambiamento climatico, processo che interessa anche i tre più estesi, quello dell’Adamello in val Camonica, quello dei Forni in alta Valtellina e quello del Miage, nella parte alta della val Veny, in Val d’Aosta. Perdere questi “frigoriferi” naturali del passato per colpa del cambiamento climatico e del surriscaldamento del pianeta, diventa una preziosa occasione di studio per le scienze ambientali, naturali e antropologiche: il ghiacciaio che si ritira restituisce infatti oggetti e forme di vita del passato conservati dalle temperature particolarmente rigide. Ecco entrare in campo l’archeologia glaciale, una scienza che si avvale del contributo di una serie di esperti e di specialità tra cui gli zoologi per i resti animali, i botanici per i resti vegetali e gli antropologi per i resti umani, ma anche storici e glaciologi. Abbiamo chiesto a Guglielmina Diolaiuti, docente di Geografia fisica e Geomorfologia all’Università degli Studi di Milano, appassionata di montagna e alpinismo di rispondere alle nostre domande.

Quando è nata in Italia l’archeologia glaciale?
Da circa 50 anni sulle nostre Alpi, la fusione dei ghiacciai ha fatto ritrovare ordigni inesplosi e oggettistica risalenti alla prima guerra mondiale. Poi c’è stata una data e un ritrovamento che hanno cambiato radicalmente le cose.

Ci racconti.
Il 19 settembre del 1991 è stato recuperato in Trentino Alto Adige, in prossimità del confine italo-austriaco, ai piedi del ghiacciaio del Similaun, a 3213 metri, la mummia del Similaun (chiamata familiarmente Ötzi) vissuta circa 5300-5200 anni fa, nel lontano periodo dell’Homo sapiens. Da lì è nato l’interesse per studiare i ghiacciai non solo come testimoni del cambiamento climatico ma come preziosi custodi di testimonianze del passato. Il freddo conserva tutto, anche la pelle, i tessuti, le piante, i batteri, non solo le ossa. Nel caso del Simulaun, per esempio, sono stati studiati i resti dello stomaco per capire cosa aveva mangiato, le piante che aveva calpestato, insomma si è spalancata un’enorme possibilità di studi.

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Universal History Archive//Getty Images

La ricostruzione tridimensionale di Ötzi esposta al Museo archeologico di Bolzano.

Il movimento dei ghiacciai compromette il recupero dei reperti che potrebbe liberare?
Certo, il movimento potrebbe frantumare cosa c’è nel suo interno, rimasto lì per secoli, soprattutto se si trova nelle zone terminali, nei crepacci; sorte diversa per i resti che si trovano nelle zone superiori del ghiacciaio, cioè in quelle meno dinamiche.

In Italia, l’archeologia glaciale è una disciplina di nicchia o riscuote molto interesse?
Resta di nicchia, ma in quanto multidisciplinare e talvolta anche internazionale, risulta molto affascinante. Io, per esempio, come glaciologa studio l’intensità della fusione dei ghiacciai, faccio previsioni sui tempi di fusione, aiuto a datare i reperti scoperti dall’archeologia glaciale proprio in base alla dinamica e all’evoluzione del ghiacciaio stesso. E mi ritrovo a stretto contatto con colleghi di discipline diverse e complementari per un lavoro d’equipe. Penso a quando ci spostiamo nei cantieri in alta quota all’estero, accompagnati dalle guide alpine locali, con corde, scarponi e attrezzatura giusta per muoverci in sicurezza.

C’è il rischio che un aumento delle temperature in quota faccia “marcire” i reperti?
Sì certo, questo è un problema reale. Noi ci muoviamo di solito su segnalazione degli alpinisti o perché in base a studi si procede su zone dove la fusione è più intensa per verificare se affiorano materiali. Visto anche la velocità di fusione dei ghiacciai, a luglio dell’estate scorsa si perdevano 10 cm di spessore di ghiaccio al giorno, attenzione significa un metro ogni 10 giorni, è importantissimo essere rapidi e veloci nel recupero.

I reperti in quota sono soggetti a furti?
Sì, quello è un altro problema ricorrente, soprattutto per i ghiacciai più frequentati dagli alpinisti. È successo che se ne approprino per tenerseli o per alimentare il mercato del collezionismo, soprattutto per i prodotti manufatti.

Come si conservano i reperti una volta che li avete prelevati?
Dicevo che la rapidità del recupero è fondamentale tanto quanto il mantenimento della catena del freddo per rallentare o azzerare la decomposizione. Altro aspetto importante in fase di recupero è prelevare anche i detriti circostanti perché sicuramente conservano tracce preziose per contestualizzare il reperto principale.

Qual è stata l’esperienza più emozionante che ha vissuto come studiosa in quota?
Quando il ghiacciaio ci ha restituito una ciotola risalente alla prima guerra mondiale. Mi sono immaginata quei soldati, ragazzi di 16-21 anni che consumavano il pasto vestititi di cotone e juta quindi fradici dal mattino alla sera, poco più grandi dei miei figli per difendere i confini. Per me ha un grade valore riuscire a restituire l’onore di come hanno vissuto. Il ghiacciaio è così prezioso perché oggi è testimone del cambiamento climatico che dipende dalle nostre emissioni, ma è anche custode della memoria. Questo cerco di passare ai miei tesisti quando facciamo le uscite e lavoriamo in quota. Rispetto e memoria.



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