Donne (mute) alla corte di Costantino

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Che il genere sia una categoria storiografica, e cioè una delle chiavi per rileggere i fatti storici, le società del passato e i rapporti di potere che le hanno strutturate, è un’acquisizione solo da qualche anno indiscussa, e il suo ultimo approdo alla strumentazione didattica, anche in Italia, ne rappresenta la prova tangibile e allo stesso tempo la piena legittimazione.

«Politics constructs gender and gender constructs politics», secondo l’invito a un nuovo modello di indagine formulato da Joan W. Scott in un saggio del 1986, invito consacrato poi come assunto tanto della storiografia femminista quanto della storia delle donne degli ultimi decenni.

Ma se resta ancora invisibile la massa delle donne che hanno attraversato i secoli nell’anonimato, semplicemente rimosse da ogni rappresentazione sociale, impervia rimane anche la ricostruzione delle figure femminili che hanno calcato la scena del potere, nel contraddittorio ingaggiato con una documentazione che nell’antichità e almeno per tutto il medioevo occidentale si rivela reticente o apertamente inattendibile. E come del resto privilegiare le testimonianze letterarie, per paradosso più affidabili, senz’altro più generose di inquadrature, ma al netto delle manipolazioni e omissioni dettate dalla fede politica o religiosa dei loro autori, e più in generale di quella misoginia che sempre spontaneamente si accanisce sulle donne che hanno avuto a che fare con la grande politica?

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È in questo senso anche un’importante lezione di metodo il nuovo libro di Francesca Ghedini Elena e le altre Donne, religione e politica alla corte di Costantino (Carocci editore «Frecce», pp. 234, euro 23,00), un racconto serrato di uno dei periodi più tormentati della storia dell’impero romano, recuperato puntando l’obiettivo sulle figure femminili che presero parte, protagoniste o semplici comparse, alle vicende del regno di Costantino, nei pochi decenni che gli bastarono per rovesciare gli assetti politico-religiosi dell’impero e imprimere la svolta cristiana in occidente.

Un’indagine rigorosa, immune da qualsiasi forzatura ideologizzante o sovraesposizione di tendenza, che interroga scrupolosamente le fonti nel dialogo negato con donne rimaste mute: sono stati altri, soprattutto i biografi dei loro uomini, testimoni scopertamente allineati o detrattori, a parlare per loro e di loro, mentre quasi nulla resta della loro reale personalità, del loro pensiero, del peso politico effettivo del loro agire. E soprattutto del rapporto lacerante con la ragion di stato che ha mosso le azioni più atroci degli uomini al potere.

La traccia di queste donne nella storia è impressa dalla loro maternità: assicurare la discendenza imperiale per linea di sangue le stabilizza sulla scena del potere e ne fornisce un’identità da consegnare ai secoli a venire, quella di mater, generatrix, procreatrix, i pochi titoli riservati alle generatrici di imperatori e figli di imperatori.

Altrimenti di loro resta poco, a volte solo il nome. Come quello delle due donne di Costantino, l’opaca Minervina, non si sa se prima moglie o semplice concubina, madre del primogenito Crispo, e Fausta, la consorte legittima di origini nobilissime, sorella di quel Massenzio che sarebbe morto nel 312 a Ponte Milvio, coprotagonista della celebre battaglia sullo sfondo della grandiosa scenografia miracolistica che la propaganda cristiana avrebbe costruito intorno all’evento. Eppure, lei come le altre «pedina nel grande gioco del potere». La sua morte nel 326, voluta dall’imperatore con l’assassinio o il suicidio, insieme a quella del figliastro Crispo resta un mistero per la contraddizione e la deriva romanzesca delle fonti, che per lei tirano fuori una brutta storia di incesto, quasi certamente solo un fosco riverbero del mito di Fedra.

La morte di Fausta restituisce forse l’immagine più cruenta di Costantino, a un anno soltanto dal Concilio di Nicea, la pietra angolare dell’unità dogmatica del cristianesimo, aperto proprio dall’imperatore risplendente di oro e di porpora: così almeno nel racconto di Eusebio di Cesarea, il vescovo-biografo la cui Vita di Costantino (l’originale è in greco) resta una delle fonti più attendibili per la storiografia del periodo.

Figure minori, talvolta evanescenti, quelle delle figlie di Costantino, Costantina e Elena, così come quelle della matrigna Teodora e delle sue figlie Costanza, Anastasia, Eutropia, tutte fedeli esecutrici degli ordini dell’imperatore, che le usò per stringere alleanze attraverso matrimoni strategici, calpestando all’occorrenza i legami familiari da lui stesso stretti. Nella loro tacita sottomissione, queste donne di corte offrono un dato che «se proiettato sul più vasto orizzonte della vita quotidiana del IV secolo, lumeggia interessanti aspetti circa il ruolo delle donne nella famiglia e nella società coeve».

Il centro della scena è però occupato da Elena, che del primo imperatore cristiano fu la madre e che la Chiesa venera come santa. Nelle molte pagine che le sono dedicate se ne ricostruisce il profilo e il prodigioso riscatto dall’oscura condizione di stabularia, semplice locandiera, fino al tributo dei titoli di nobilissima femina e quindi di Augusta, a lei conferiti dal figlio, tra attaccamento alla madre e strategia di legittimazione dinastica.

Ma mentre resta incerto il ruolo realmente giocato nell’avvicinamento dell’imperatore al cristianesimo, a montare intorno alla figura di Elena una poderosa macchina propagandistica sono proprio gli scrittori cristiani, e Ambrogio soprattutto, che riabilita la sua nascita umile in chiave morale e ne consegna ai secoli a venire l’immagine più potente: quella della donna che in un viaggio in Terra Santa compiuto nel 327 riporta alla luce la Vera Croce, la croce sulla quale è stato crocifisso Cristo.

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È una narrazione edificante, creata ex post, che trasfigura in una dimensione sovrannaturale «una sofisticata e complessa operazione di propaganda», nella quale si incrociano devozione e azione politica della madre di Costantino, come rappresentante – ed esecutrice – del potere imperiale che punta a ridare luce ai luoghi di Cristo a Gerusalemme. Ma è anche, si sa, la nascita di una leggenda che segna l’inizio del culto cristiano delle reliquie e arriva incredibilmente indenne, come tutte le vere leggende, all’attualità più détachée, concretata nei frammenti di quel legno sparsi per il mondo e ancora venerati.

Molto lontana dall’orientare o limitare una ricostruzione critica che brilla per la ricchezza della documentazione e l’acribia dell’analisi, l’angolatura di genere ricompone con una inedita messa a fuoco biografica la complessità di un secolo che ha segnato il futuro dell’occidente.



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