Guccini vs Jovanotti su “Gloria”. La sinistra canterina che disprezza i gusti del popolo

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Guccini e Jovanotti hanno alcune cose in comune: Fabio Fazio, la sinistra benestante, la spocchia che gli fa dire emerite cretinate, una certa ipocrisia che però viene ad entrambi perdonata, così, per autoinfusione, per autonomina. Noi siamo quelli che possono dar fiato alla bocca. Però, però: piano, piano un momento. Il vecchio “maestrone”, chissà perché, chissà di che, e l’eterno Jovanottone sono tenuti a rendere conto, anche loro, come tutti, seppure non si usa più, delle loro parole, opere e omissioni; tanto per cominciare, questi assai presunti antisistema sono stati sfornati ciascuno a suo tempo dal sistema del tempo, Guccini dal giro Caterina Caselli, Cherubini da Cecchetto e Pippo Baudo, ve lo ricordate il Grillo sanremese che gli faceva il cu**?

Fu l’ultima cosa sensata che disse, alla fine degli anni Ottanta, poi il buio delle vacche tutte nere. Guccini ora sostiene che “Gloria” di Umberto Tozzi, sì, sarà anche una bella canzoncina, per dire non esiste, ma non può essere appaiata al livello della Locomotiva. Siamo d’accordo, una è un inno pop, l’altra una rottura di cog****. Quel disprezzo della sinistra autoimpancata per le canzoni semplici, che hanno successo. Semplice fino a un certo punto se von Karajan, che era von Karajan, una volta in un bistrò la sente passare alla radio, si blocca e mormora: però, mica male questa melodia: trionfale! Guccini voleva essere Woodie Guthrie, “tra la via Emilia e il West”, ma l’ha sempre fegato quell’arroganza leninista da falso proletario, l’etica estetica dell’osteria, del fiasco, dei libri in bella vista, insomma se la canta e se la suona per conto suo, se la tira allo specchio, tanto i suggestionabili ci cascano. Ma se fai canzoni, anzi prediche, di struttura elementare non bastano gli Ellade Bandini, gli Ares Tavolazzi del jazz a ricamarle. Dice Guccini che Gloria è quello che è perché non ha alle spalle una storia di libri, di cultura. Cioè io sono cultura.

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Se fosse un uomo colto non si perderebbe in simili banalità populistiche. Un’altra volta disse che quel tale David Bowie non lo conosceva, non gli diceva niente, chi era? Eh, certo. Forse perché non sfoggiava l’eskimo, non tirava su il pugno, non levava il fiasco. Una provocazione? Un rancore da comunista? Comunque la falsa affabilità, il vittimismo spocchioso, un po’ alienato, di quelli confinati nell’appennino toscoemiliano, come il Lindo Ferretti che vive da asceta ma ogni tanto torna, rispolvera i vecchi stalinisti dei CCCP e fa un giro da cui torna carico di vil denaro.

Jovanotti è un altro. L’ecologista che dove passa suscita levate di scudi degli ambientalisti che lo considerano più o meno come Attila, ma lui ride con quella risata vacua, he-he-he, e procede di jovaparty in jovaparty. A 60 anni, il party. Me lo ricordo quando a Sanremo, vestito d’arancio, tipo Benetton 0-12, trovò la ricetta economica per il Messico in bancarotta: “D’Alema cancella il debito oh oh”. E sgambettava. D’Alema avrà avuto la stessa smorfia di disgusto di Togliatti quando gli si avvicinava un compagno vero, povero, proletario. Ma mi scrisse in tempi non sospetti questo trasformista del qualunquismo: sei tu che non capisci, io cambierò sempre pelle. Voleva dire faccia, questo era perfettamente chiaro. Oggi dice che “Tony Effe è come Mozart” e qui, scusate, la comprensione umana lascia il posto alla spocchia di riflesso, insomma ti girano i coglioni, perché c’è un limite anche alla bestialità. Se vogliamo proprio metterla sul de gustibus, ebbene sia, ma nel senso, vero, latino, che tutti i gusti vanno tollerati, magari compatiti: non in quello, delirante, della parificazione in nome dell’astensione dal giudizio.

Non è tutto uguale, non è tutto arte, e non è tutto cultura e peggio per chi non la mastica e nemmeno la sospetta. Fra I Kolors e Beethoven non c’è neanche un abisso, c’è proprio improponibilità, c’è incompatibilità, come per specie diverse. Il jingle sanremese, “un ragazzo incontra una ragazza” varrebbe la Nona, il suo tema cardine, quell’Inno alla Gioia, che non era affatto un inno, era più esattamente un’ode alla libertà, che germina per 34 anni, che, misteriosamente, evoca l’Offertoio Misericordias Domini di Mozart del 1775, quando Beethoven aveva suppergiù 6 anni? E di stagione in stagione quell’embrione tematico evolve fino al trionfo definitivo dell’ultima sinfonia che è un messaggio di fratellanza universale e deve passare per l’enorme delusione dell’Eroica, l’infatuazione napoleonica, lo spiritus mundi poi stracciato, rinnegato, da cui un devastante processo di autocoscienza, culturale, morale, politico che sfocia nell’epilogo della Corale, la prima assoluta al Teatro di Porta Carinzia, giusto 200 anni fa, Ludwig l’ha finanziata tutta da solo, si è rovinato, non può dirigerla: è totalmente sordo, è malato, sta per morire, ma quando tutto è compiuto il direttore supplente gli batte lievemente una spalla, Beethoven si volta e invece dell’applauso generale, inutile, vede una nevicata di fazzoletti candidi per lui, un’ovazione di gratitudine silenziosa, e dal volto duro, marmoreo, scende, ruscello di dolore una lacrima. Una sola.

Tutto questo cosa ha a che fare con Tony Effe che è un bamboccio figlio del sistema, che lo sostiene, perché, come Vasco Rossi, in lui difende la finta trasgressione del tempo che fu, ma che in realtà non fu mai? Sì, d’accordo, c’è da difendere la capra dell’arte con le fregole autolesioniste del Pd, ma, Cristo santo, questo sarebbe come Mozart? Mozart, che nel 1786, tre anni prima della Rivoluzione Francese, esce insieme a Da Ponte con Le Nozze di Figaro che è un trattato sulla potenza di Eros, sull’erotismo che origina e spinge tutte le relazioni umane, di tutti i generi, di tutti i sessi, gli intrecci? E, malgrado la benevolenza dell’imperatore, non ha un gran successo, Mozart la abbandona quasi subito, perché tutto nelle Nozze è inaudito: il tema, il linguaggio formale, il messaggio: si anticipa, volendo, il gender, non si dica il woke, ma il gender probabilmente, di due secoli e mezzo. Questo Effe, e ciascuno completi la sigla come crede, “Fenomeno” o “Fesso”, fa un balbettio su come si violentano le donne e dicono che è arte, che lui è come Mozart.

No, scusate, scusate anche la pedanteria, una tantum, del cronista, ma questa non si può accettare. Neanche da due compagni benestanti che credono di poter sparare la qualunque, sicuri che nel salotto di Fabio Fazio, ma pure altrove, non pioveranno altro che genuflessioni, peana e osanna. “E un cazzo in c*** e accuse di arrivismo, dubbi di qualunquismo, son quello che mi resta”. Risparmiati i dubbi, compagno Guccini. Il problema della sinistra “intellettuale”, culturale, è che non è niente di tutto questo, è ridicola, è patetica: ma è un problema tutto suo. E “Gloria”, che ancora oggi la canta tutto il mondo, ci dà tuttora gioia anche quando, nel suo empito di sessualità autarchica, proletaria, manca “ad una mano che lavora piano”.

Max Del Papa, 22 dicembre 2024

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