Che lo scenario dell’occupazione nelle imprese italiane negli ultimi dieci anni fosse cambiato era sotto gli occhi di tutti: produzioni manifatturiere a minore valore aggiunto sono state spostate in paesi dove il lavoro costa meno, rapida crescita del settore dei servizi innovativi, la velocità dei trasporti ha permesso di organizzare la produzione facendo, sostanzialmente, a meno dei magazzini nelle aziende (il cosiddetto “just in time” che ha, per esempio, guidato l’organizzazione delle produzioni automobilistiche), le innovazioni di processo che hanno “alleggerito” molte produzioni industriali, la digitalizzazione che ha cambiato anche il mondo di vendere i prodotti e, infine, il ridimensionamento delle grandi organizzazioni produttive.
La mappa del cambiamento (elaborata su dati Istat 2012-2022) è, però, foriera di più novità rispetto alle aspettative. Anzitutto, mentre nel Paese flette robustamente (-27,08%) l’occupazione nelle grandi aziende (quelle con più di 250 addetti) e in misura ridotta (-1,27%) nelle piccolissime (con meno di dieci dipendenti), la novità positiva è la crescita delle medie aziende (50-249 dipendenti) con un 21,78% che significa 455.075 occupati in più in quelle aziende e nelle piccole (10-49 addetti) con un più 11,55 per cento.
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Le medie aziende sono quelle che sono più strettamente connesse al territorio, l’imprenditore è il centro della gestione, i rapporti di fornitura hanno una declinazione che diffonde sul territorio saperi e competenze avviando processi moltiplicativi (che poi alla fine irrobustiscono i settori produttivi), hanno bilanci «bancabili» per investimenti e più e più studi raccontano come la media impresa locale sia capace di avere una reazione agli stimoli di mercato più veloce delle grandi e con maggiore disponibilità di capitali e struttura delle piccole.
In questo quadro è dunque davvero interessante quello che è successo in Campania tra il 2012 e il 2022 quando a Napoli il numero delle medie imprese ha avuto la seconda maggiore crescita italiana (dopo Bolzano 60,42%): +54,93 per cento, seguito da Salerno con un importantissimo +45,99 per cento.
IL CASO CAMPANIA
Ma ciò che è davvero rilevante e inedito riguarda l’occupazione con Napoli che cresce del 58,91% e Salerno del 56,63 per cento: il capoluogo, in valore assoluto, con 89.322 addetti si piazza al quarto posto nel paese superando, rispetto al 2012 poli produttivi del calibro di Brescia e Bergamo e si avvicina a Torino che ha 90mila addetti, ma la forbice tra le due città si è notevolmente ristretta negli ultimi anni a favore del capoluogo campano. Salerno, che nel 2012 era al 25/esimo posto tra le province italiane, guadagna nove posizioni e si piazza sedicesima mettendosi alle spalle anche uno dei vertici del «triangolo» industriale italiano: Genova.
Sia per Napoli, sia per Salerno non si tratta dello spostamento dell’occupazione dalle aziende piccole e grandi: è occupazione aggiuntiva perché, a differenza del dato medio nazionale, l’occupazione cresce in tutte le “taglie” aziendali. Addirittura a Salerno la grande imprese guadagna il 124 per cento! Ovviamente guardando i valori assoluti si tratta di numeri non grandissimi da 7.250 a 16.288 (ma manco poco è!) se li si mette in relazione a quelli della piccola impresa (132.518).
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LA CLASSIFICA
Tra le prime venti province, tre sono meridionali (Napoli, Bari e la new entry Salerno), mentre nel 2012 erano solo due. Se quello di Salerno è stato l’incremento maggiore, altri movimenti in salita hanno riguardato Firenze, Reggio Emilia, Trento, Cuneo e Parma che hanno guadagnato da una a due posizioni. Mentre oltre a Bergamo e Brescia, finite sotto Napoli, Varese e Venezia sono finite fuori dalle prime venti.
Perché le medie imprese hanno ottenuto questo risultato a Napoli e Salerno? «Anzitutto – spiega Mauro Maccauro, presidente e amministratore delegato di Euroflex, azienda di Mercato San Severino (Salerno) che produce profilati, nastri e lamiere – esiste un tessuto di medie imprese che rende più forte ciascuna delle aziende. Insomma l’effetto comunità. Poi è ancora la dimensione dove proprietà e gestione sono fuse nella persona dell’imprenditore che dà anima e visione all’azienda: è questi sono valori fondamentali».
Sembra essere meno importante rispetto al passato la dimensione dell’azienda rispetto alla capacità di fare investimenti sia sulla produzione sia sulla ricerca e lo sviluppo dei prodotti. «In questi ultimi anni – spiega Maccauro – abbiamo avuto un clima creditizio favorevole che ha sostenuto gli investimenti. Le banche sono state sempre vicine alle scelte produttive e avendo liquidità l’hanno trasferita. Quanto alla ricerca e sviluppo – prosegue – se si è nel mercato è il mercato che impone ricerca e sviluppo, il feedback con i clienti e i fornitori è un potente traino».
Le minacce? «Quelle di tutta l’industria: i profili professionali che non si trovano – spiega Maccauro – è il maggiore dei problemi». E le debolezze a cominciare dall’avvicendamento generazionale? «Quello lo si imposta per tempo, facendo all’interno delle famiglie delle scelte, preparando le persone che dovranno portare avanti l’attività non solo da un punto di vista di formazione adeguata e di preparazione specifica ma anche costruendo insieme la leadership da presentare a collaboratori e fornitori. Non si improvvisa nulla, altrimenti non ci sono i risultati».
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