«Il diavolo e l’acqua santa!». Questa era la risposta immediata che ti davano le prime volte che la questione business ethics (mi si perdoni l’inglese, ma in questo campo spesso l’italiano non rende bene) veniva presentata all’opinione pubblica. Seguiva, di regola, un sorrisetto scettico, che insinuava qualcosa del genere: «La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni» e simili. Ma tutto ciò è roba di circa mezzo secolo fa. Ora non è più così. Business ethics, sostenibilità, responsabilità sociale di impresa e la più recente evoluzione legata alle metriche di Environmental, Social e Governance (ESG) sembrano rappresentare più la regola che l’eccezione nel mondo internazionale del lavoro, della produzione e della finanza. Oggi come oggi, oltre 30 trilioni di dollari (una cifra da capogiro, con circa 15.000 grandi imprese valutate) sono investiti in fondi di investimento che pretendono di misurare il lavoro delle imprese in termini di prestazioni ESG. Che poi vuol dire sostenibilità sociale più rispetto per l’ambiente più governance equanime. Testimonianza evidente di questo virtuoso (si spera…) andazzo è la lettera annuale di Black Rock, forse il più ricco fondo di investimento del mondo, che da qualche tempo impone alle imprese sostenibilità a tutto tondo. In sostanza, quella della sostenibilità generale, come io chiamo ESG, sembra l’avanguardia di una rivoluzione concettuale e pratica a livello globale.
Questo fatto, in quanto tale non controverso, non esclude però dubbi a tutto campo. Dubbi che aumentano nel tempo, e richiedono, così sostiene questo libro, una revisione del paradigma ESG in nome di quel fattore H che – come potrete constatare leggendo il libro – è l’elemento nuovo e decisivo per riqualificare ESG. Questi dubbi nascono sia da ragioni politiche sia da ragioni concettuali (che sono più importanti, per quel che io credo).
Cominciamo da quelle politiche. Da destra, il perbenismo della sostenibilità generale viene visto come l’ennesimo rampollo di quella cultura politically correct che i benpensanti liberal vorrebbero imporre. Mentre, lo sostengono sempre i conservatori, da che mondo è mondo «business of business is business», e il resto è fuffa. Da sinistra, invece, spesso e volentieri si ritiene che la sostenibilità sarebbe cosa fantastica, ma solo se presa sul serio e non resa obbligatoria dai fondi. Per cui, gran parte della sostenibilità attualmente all’opera finisce con l’essere più che altro facciata, una spolverata di buona volontà o, come si dice, mero greenwashing.
Ma veniamo alle ragioni concettuali. Fatto è che il significato stesso di ESG è controverso. Da un lato, ESG prende significato dal fatto che considerare seriamente questioni ambientali, sociali e di governance addomestica i rischi connessi alla gestione di molti asset. Ma dall’altro lato il significato di ESG è del tutto diverso. In questa seconda versione, investire in titoli sostenibili o verdi implica cercare di fare del bene. Si tratta di due visioni difficilmente compatibili, perché nel primo caso siamo al cospetto di una strategia finanziaria aziendale e si considerano e, s e g come input da massimizzare in un processo di investimento. Cosa, quest’ultima, favorita dalla diffusione e dall’importanza dei rating, che pretendono di adoperare un solo numero per quantificare il processo ESG di una compagnia. Nel secondo caso, invece, si tratta di una questione di atteggiamento, in sostanza qualcosa di meno quantitativo e più qualitativo. Il tutto è complicato dalle intrinseche difficoltà connesse al reperimento di una metrica affidabile che spieghi come e perché ESG dovrebbe creare valore. I beni di cui parliamo, nel caso di ESG, sono beni intangibili e, come tali, difficilmente riducibili a quantità. Questo per quanto riguarda il primo significato di ESG. Mentre per quanto riguarda il secondo è facile obiettare che è giusto fare del bene, ma che è davvero problematico stabilire che cosa è buono. Come del resto mostra il pluralismo delle visioni etiche.
Troppo spesso, molti notano, il primo significato di ESG, quello quantitativo e aziendale, fa aggio sul secondo, quello qualitativo ed etico. In termini filosofici, si potrebbe parlare qui di riduzionismo, in quanto si riduce la complessità della questione dei valori a un calcolo quantitativo basato sui rating. Là dove questi dipendono in maniera non banale dalle strategie aziendali. Qualcosa del genere muterebbe il senso stesso della business ethics. Quest’ultima è nata (a Wharton, Università della Pennsylvania, con cui nel 2023 Ethos Luiss si è incontrata proprio per discutere lo sviluppo dei modelli ESG) con l’intenzione di spostare il fuoco dell’impresa dalla proprietà e dai manager, gli shareholders, a tutti coloro che nella società hanno a che fare con l’impresa, gli stakeholders. Il riduzionismo quantitativo e aziendale, legato al primo significato di ESG, da questo punto di vista rappresenta un’indubbia involuzione, una sorta di ritorno al passato e, se vogliamo, un segno di fallimento di tutta questa prospettiva.
La questione è complicata dalla congiunzione del tentativo di riduzionismo quantitativo legato ai rating con l’impiego di algoritmi digitali. Da questo punto di vista, è urgente poter riportare al centro dei processi di decision making non solo delle misure e in genere delle tecniche ma anche tutta una serie di dimensioni antropologiche e etiche. C’è bisogno, in sostanza, di tornare a rendere possibile la convivenza umana in una stagione in cui l’automatizzazione e la decisione algoritmica rischia di rimpiazzare l’umano e le strutture valoriali della nostra convivenza sociale.
In questa ottica, il libro intende contribuire a porre le basi per un processo collettivo di formazione, un luogo di pensiero e una struttura di dialogo per far rifiorire l’umano. Lo scopo consiste nel rinnovamento di uno strumento come ESG, che, nel suo complesso, può ripercuotersi sul miglioramento delle condizioni di lavoro, e sui rapporti tra economia e società. La proposta del libro è che lo strumento per ottenere un risultato del genere consiste nel passaggio da ESG a ESG-H. Dove «H» è la lettera iniziale di Health, Human e Happiness. E rappresenta il simbolo su cui basare un nuovo patto sociale.
Nel proporre qualcosa del genere, non ci si deve preoccupare troppo di essere neutrali. Piuttosto, avendo in mente il fattore H, vorrei riprendere quello che Bernard Williams, uno dei più interessanti filosofi della seconda parte del secolo XX, chiamava il «pregiudizio umanistico». Che poi, a suo avviso, altro non è che una risposta alla domanda fondamentale: «Di che cosa si occupa la filosofia?».
In questi termini, la filosofia è una disciplina umanistica e si contrappone a ogni forma di riduzionismo e di scientismo, intesi come l’errore che la filosofia compie quando pretende di imitare nel metodo e negli scopi l’impresa scientifica e le strategie di impresa. Proprio per ciò, la proposta di Williams è utile per comprendere il senso della H da aggiungere a ESG. Il problema più immediato con una concezione come questa è che difficilmente noi possiamo aspirare, nell’ambito filosofico così inteso, a una conoscenza assoluta del mondo come lo è in qualche modo quella legata alle scienze e ai bilanci tradizionali. In realtà, è difficile se non impossibile distinguere nitidamente ciò che il mondo è per così dire in sé e quanto invece la conoscenza del mondo dipenda dal nostro peculiare contributo (Hilary Putnam, tra i filosofi contemporanei, sostiene una tesi siffatta). In fin dei conti, non è sbagliato pensare che le stesse relazioni semantiche presuppongono un impegno normativo e che, proprio per ciò, non esistono descrizioni del mondo puramente neutrali o assolute.
Williams, partendo da qui, vuole sostenere che, comunque, ammesso che fosse possibile, una concezione neutrale e assoluta del mondo non sarebbe particolarmente interessante per noi come umani. Non sarebbe infatti utile per molti dei nostri scopi abituali, primo tra tutti il tentativo di dare senso al nostro agire in generale e alle attività intellettuali in particolare. Per questa ragione, abbiamo bisogno di concezioni radicate nelle nostre pratiche, nella nostra cultura e in sostanza nella storia. La stessa semantica in fin dei conti (sarebbe a dire il modo in cui facciamo riferimento a eventi e oggetti) è condizionata da questo ineliminabile radicamento in una cultura e in una comunità.
Dal Rinascimento in poi è stato rilevante un modo di pensare che prima si chiamava Umanesimo e ora (forse) Umanismo. Secondo questo modo, per dirla con Williams, dal Rinascimento a oggi molti hanno condiviso l’idea che «humans were particularly important in relation to the scheme of things». Certo, l’essere umano è piccola cosa rispetto al cosmo nel suo complesso. Ma c’è perlomeno un punto di vista all’interno del quale gli esseri umani sono molto importanti. Questo punto di vista è il «nostro». Per questo si parla normalmente di valori umani o di diritti umani. Sono questi non solo valori e diritti che ci capita di avere, ma sono espressione significativa della natura umana. Ma ciò non vuol dire che gli esseri umani sono oggettivamente più importanti di altre creature, ma solo che sono più importanti per noi.
A questa tesi si aggiunge, e si può porre un’obiezione, quella secondo cui noi dovremmo avere una ragione per potere sostenere qualcosa del genere, altrimenti si tratterebbe di un mero pregiudizio. Come lo sono quelli nutriti da razzisti e sessisti. La differenza potrebbe essere che razzisti e sessisti adducono cause che giustificano (pretestuosamente) le loro opinioni, per esempio che donne e coloured sarebbero meno capaci di maschi e bianchi. Mentre, a fronte di ciò, il pregiudizio umanista non avrebbe bisogno di reperire ulteriori cause: è solo per noi che il punto di vista degli umani è più importante. Simile conclusione sarebbe evidente se noi pensassimo all’usuale scenario dei film di fantascienza, l’invasione degli alieni. In un caso del genere, difendere l’identità di specie, cioè il fatto di essere umani, ci sembra infatti del tutto naturale. E non è difficile pensare che la condizione digitale, come oramai si vede sempre più spesso nella letteratura e nel cinema, spinta all’estremo potrebbe portare a una situazione limite del tipo dell’invasione degli alieni, in questo caso le macchine pensanti. Cosa che difenderebbe la causa umanocentrica, cui corrisponde la lettera H di cui si parla in questo libro.
Il pregiudizio a favore degli umani, come si potrebbe chiamarlo, può creare scandalo in tempi come i nostri, in cui in filosofia dominano temi come la morte del soggetto, il post-umano e il transumano. Ma, a ben pensarci, un simile pregiudizio è abbastanza naturale. Il nostro interesse morale, pur se siamo universalisti in principio, è di solito inversamente proporzionale rispetto alla distanza da noi dei soggetti di cui si parla. Preferiamo di solito i nostri figli agli altri, per esempio. Ciò, lo ripetiamo, ci sembra abbastanza normale. Il problema è se questo pregiudizio sia anche normativamente accettabile. Sarebbe a dire: assumendo che di regola si favorisca ciò che ci è più vicino, è anche giusto moralmente che sia così? Il dibattito in bioetica e su diritti di animali e piante ha offerto molti argomenti che negano la possibilità di una risposta positiva a una domanda del genere. Se noi siamo a tutti gli effetti animali come gli altri, e se i vegetali in fondo avessero pensieri e emozioni, un pregiudizio a favore dell’umano non avrebbe cittadinanza etica. A noi sembra, invece, che al cospetto della crisi del modello ESG, dovuta al riduzionismo aziendalistico, sia del tutto legittimo e urgente recuperare la difesa dell’umano. In nome della quale questo libro propone qui di optare per ESG+H.
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