Don Russo, “Gesù nasce nel deserto dell’umano”

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Firenze – Dov’è il Presepe, quello vero, quello vivo, in cui Gesù nasce ogni anno?

Don Vincenzo Russo, ex cappellano del carcere di Sollicciano da cui venne costretto a uscire dopo l’iniziativa di sostenere una lettera di protesta contro le condizioni carcerarie sottoscritta da 300 detenuti ,attualmente Presidente della Madonnina del Grappa, porta i suoi auguri di Natale alla comunità cattolica con un’omelia lucida e senza tentennamenti, pronunciata stamani nella Chiesa di Sant’Antonio al Romito, a Firenze.

L’occasione per porre il Natale all’interno di quel percorso della Buona Novella che vuole la presenza del Cristo fra gli ultimi, i negletti della società, è il Presepe allestito dai ragazzi della parrocchia, che vede nel mezzo, la Tenda. Ovvero, la Chiesa in cammino, ma anche la Chiesa che è vicino a chi non ha tetto, non ha stabilità, non ha sicurezza. Chi vive nelle tende insomma, che sempre più assediano il tessuto urbano. Qui nasce il Cristo, in mezzo “all’umanità fatta di milioni di profughi, di immigrati respinti e lasciati in balia degli eventi, di persone che sono state strappate alle loro terre o costrette ad abbandonarle, sole, smarrite, senza il calore di luoghi e affetti familiari”.

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La tenda, i teli termici appoggiati accanto, “il freddo, prima ancora che essere intemperia climatica è immagine dell’indifferenza che il mondo, e spesso anche noi, riserviamo a questi fratelli e sorelle”. Responsabilità, questa, cui nessuno di noi può sfuggire, intrappolati in una logica che vede nell’altro “un ostacolo alla propria realizzazione “.

“Ma Gesù – continua don Russo – sceglie proprio di nascere sotto quelle tende, in mezzo al deserto dell’umano, in quelle zattere della disperazione, nei luoghi dove spadroneggia la morte, fuori da ogni contesto che per gli uomini conta. Se noi siamo altrove con il nostro sguardo, impegno e coraggio, allora Gesù nasce lontano da noi”

Non c’è solo la tenda, nel Presepe dei ragazzi. Ci sono le macerie, quelle lasciate dalle bombe. Lì, in quei bimbi martoriati, amputati, uccisi, rinasce il Figlio di Dio. Dalla Palestina, all’Ucraina, alla Siria.

“In quella che è stata definita dallo stesso Papa Francesco la Terza Guerra Mondiale a pezzi, la vita dei bambini e in generale ogni vita non ha alcun valore, non conta nulla, è sacrificabile a qualsiasi altra cosa. La sua distruzione è quasi effetto collaterale scontato”.

Ma cosa dovrebbe fare un cristiano? Che mondo siamo disposti ad accettare? Cosa deve accadere per farci indignare e reagire?

“A Sant’Agostino è attribuita una famosa frase: “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”. Dunque, sdegno e coraggio. “Dobbiamo partire sempre da Lui, dal Signore che viene. Come ci dice oggi il profeta: Egli stesso sarà la pace. Dobbiamo accoglierlo, accoglierlo nella vita di coloro che incontriamo sul nostro cammino, su tutti gli altri”.

È necessario anche guardare cosa succede intorno a noi. “Le leggi del libero mercato seminano ovunque disuguaglianze, dividendo il mondo in molti poveri e pochi ricchi. Sull’economia reale, basata sulla produzione di beni, ha preso il sopravvento la finanza, che oggi esercita un vero strapotere”. E mentre grandi gruppi “detengono il controllo di buona parte di ciò che conta e lo fanno in modo subdolo, asservendoci ai loro interessi senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, la povertà dilaga”. E dilaga ovunque. Il problema tuttavia, dice don Vincenzo, è che all’ipocrisia di chi dice che vuole contrastare la povertà seguono le azioni che assecondano il sistema che quella povertà crea. I cristiani devono svegliarsi dal sonno, dove giacciono dimenticando “che il Vangelo è anche lotta, divisione, presa di posizione. Siamo chiamati ad essere uomini e donne di pace, a comporre i conflitti, ma ciò non vuol dire accettare tutto, subire, a rimanere in silenzio. Il cristiano non conosce la rassegnazione”.

per il Natale cristiano, bando alla rassegnazione. Anche quando il Presepe ci ricorda, con la presenza di un casco giallo, che chi lavora oggi è povero, anche se lavora e ha una retribuzione. Povertà del lavoro, ovvero “precarietà dei contratti, mancanza di tutele, assenza di sicurezza, lavoro nero, lavoro sfruttato, salari da fame”. Le grandi tragedie, l’esplosione all’impianto di stoccaggio ENI di Calenzano, la strage di via Mariti.

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E infine, la repressione. Quella che si esercita su chi vuole protestare ma non ha voce, operaio, povero, rifugiato, migrante, marionette “insieme agli altri poveri, di una recita nella quale non ha diritto di copione”. Uno stato di cose che si esplica “quando da parte di loro, c’è silenzio e assenza di fastidi”. E quindi, dice don Vincenzo, ecco la repressione, il legalismo, il giustizialismo.

Infine, le sbarre. Ovvero il carcere, la logica di “chiuderli dentro e buttare la chiave”.

“Oggi viviamo nell’epoca e nel governo della fiera repressione e della carcerazione, l’epoca del carcere come luogo di seconda condanna, dove alla prima emessa dal tribunale si aggiunge quella di una condizione di trattamento disumano, assimilabile a tortura. Nel carcere si ammassano i poveri (una facile e apparente soluzione al problema povertà), non ci sono ricchi in carcere”.

Ed ecco dov’è Gesù: nasce “tra coloro che indossano il casco, tra i lavoratori poveri, sfruttati, uccisi… nasce nelle celle del carcere dimenticate da tutti e abitate dalla disperazione di chi è maltrattato. Il vero presepe è tra macerie, coperta termica, tenda, casco, sbarre. Lì viene il Signore, lì è presente! Lì è la vita vera”.

La sicurezza? “La nostra unica sicurezza è quella fondata sul Figlio dell’Uomo: egli sarà la nostra pace. Altre sicurezze non esistono “. Ed ora, paradossalmente, sappiamo dove cercarla: dove, secondo il mondo, sicurezza non c’è.

“A noi scegliere di abitare il vero presepe, dove è presente il Signore, oppure camminare in luoghi altri, nei quali la vita è continuamente minacciata e la persona non ha alcun valore…luoghi lontani da Dio”. 

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