Francia, gli opposti estremismi che impediscono il governo

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di Pasquale Pasquino

 

La situazione politica in Francia è almeno dall’estate scorsa oggetto di giustificata preoccupazione. Le ragioni di questa dipendono dalla difficoltà di creare in parlamento una maggioranza in grado di governare il secondo più importante stato membro dell’Unione Europea per popolazione ed economia. La responsabilità di questo stallo ricade in egual misura sugli elettori e sulle forze politiche.

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Un vizio dell’analisi relativa alla vita politica francese consiste nel concentrarsi soprattutto se non esclusivamente sul vertice dell’iceberg politico: il presidente della Repubblica Macron. In realtà, in un regime basato su elezioni libere e competitive, il capo dello stato non è l’equivalente di Xi Jinping. Pensare che i cittadini elettori non contino è nel migliore dei casi un segno di pigrizia mentale. È dalle elezioni legislative del 2017 che la Quinta Repubblica francese conosce una Assemblea nazionale divisa in tre blocchi: la destra nazionalista, la sinistra radicale e il centro. Ma mentre questa tripartizione aveva garantito al centro una maggioranza assoluta, dopo le legislative del 2022 il centro non aveva più che una maggioranza relativa, che si è ulteriormente ridotta dopo le elezioni del 2024.

Ormai nessuna delle tre aree politiche possiede una maggioranza di seggi e nessun gruppo manifesta la volontà di allearsi con un altro per formare il governo.

Bisogna innanzitutto constatare che la Francia ha ormai sul continente europeo il maggior numero di elettori che votano per le ali estreme dello spettro politico. Gli ultimi sondaggi, se si considera solo la destra radicale, attribuiscono a Marine Le Pen il 38% dei suffragi espressi al primo turno dell’elezione presidenziale, se questa avesse luogo oggi, mentre in Germania Alternative fürDeutschland otterrebbe il 17,8% dei voti al Bundestag.  Se poi si sommano in Francia le intenzioni di voto della destra e della sinistra radicali queste superano la metà del corpo elettorale. Gli elettori alle elezioni legislative dello scorso luglio hanno assegnato ai due poli  estremisti il 63% dei voti! Non c’è da stupirsi che un tale risultato renda difficile la formazione di un esecutivo, che richiederebbe dei compromessi ai quali la maggioranza delle forze politiche francesi sono ostili.

Se si guarda con maggiore attenzione alla composizione dell’Assemblea nazionale ci si rende conto innanzitutto della grande frammentazione dei gruppi parlamentari: 11 per la precisione (oltre otto rappresentanti non iscritti). Inoltre, se si guarda alla sinistra, si vede che essa si compone di quattro gruppi parlamentari, che si erano presentati insieme alle elezioni sotto l’etichetta di Nouveau Front Populaire. I due maggiori sono La France insoumise, il partito di Mélenchon (72 deputati) e il Partito socialista (66), seguiti dagli ecologisti (38) e dai 17 membri del gruppo delle diverses gauches.

Il PS ha un ruolo decisivo per la formazione del governo o piuttosto per la sua sopravvivenza. Una mozione di sfiducia (censure) in base al testo della costituzione francese può essere sempre presentata nei confronti del governo in carica, anche se esso per entrare in funzione non ha bisogno di un voto di fiducia. Per far cadere il governo, come è accaduto per l’esecutivo Barnier, è necessaria la sfiducia della maggioranza assoluta dei membri dell’assemblea. Perché questo accada è aritmeticamente necessario che i Socialisti votino contro il governo. Altrimenti il partito di Le Pen e la sinistra più radicale non hanno i numeri per farlo cadere.

Contrariamente a quanto si è spesso affermato, l’effimero governo Barnier è stato sfiduciato e non era sotto il ricatto del Rassemblement national, ma dei Socialisti.

Il governo Bayrou – di cui si conosce per ora solo la composizione, ma non una dichiarazione della linea politica per la quale bisognerà aspettare gennaio – si trova nella stessa condizione. Se i socialisti dovessero votare contro di esso, insieme a Mélenchon e a Le Pen, la Francia si troverebbe di nuovo paralizzata con danni per l’economia del paese oggi gravato da un enorme debito pubblico.

Se è chiara la strategia del caos di Mélenchon e quella di Le Pen che vorrebbe forzare (con poche speranze) di costringere Macron alle dimissioni per andare al più presto a nuove elezioni presidenziali, che spera di vincere, è meno evidente la strategia dei Socialisti. Verosimilmente il loro obiettivo è la sopravvivenza. Con il sistema elettorale vigente per l’Assemblea nazionale senza una alleanza/subordinazione nei confronti della France insoumise il PS rischia di ridursi ad un gruppetto minuscolo.

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Rischio che corre anche rendendosi indipendente, cioè emancipandosi dalla tutela di Mélenchon. Infatti, esiste una parte degli elettori del PS che si identificano con le posizioni socialdemocratiche e filoeuropee di Raphaël Glucksmann che sopportano a fatica l’alleanza organica con l’estremismo della France insoumise di Mélenchon. Al PS, come a tutti i piccoli partiti, converrebbe una legge elettorale proporzionale, ma questa prospettiva, che sembrava verosimile quando era sostenuta anche dal Rassemblement National, pare ormai svanire poiché non c’è accordo su quale versione del sistema elettorale proporzionale adottare. Il RN oggi sarebbe favorevole ad un proporzionale con premio di maggioranza che gli garantirebbe probabilmente la maggioranza assoluta all’Assemblea. Sicché è possibile che non se ne farà niente.

In sostanza il PS è in mezzo ad un infausto guado fra votare, con le forze politiche estreme, la censura nei confronti del futuro governo Bayrou o astenersi, visto che quale che sia la scelta perderebbe elettori: o l’ala radicale o quella socialdemocratica.

In sostanza è possibile che Bayrou sopravviva in virtù di una versione francese del “governo di non sfiducia”, inventato in Italia ai tempi del terrorismo, quando il Partito comunista accettò nel 1976 di tenere in vita il terzo governo Andreotti. Una nuova sfiducia metterebbe la Francia in una condizione particolarmente difficile nei confronti fra l’altro dei mercati che devono finanziare il suo debito pubblico. E la responsabilità cadrebbe in tal caso anche sui socialisti.

È difficile che il governo centrista con l’ausilio di qualche membro delle aree moderate di destra e di sinistra possa sopravvivere al di là della scadenza del giugno 2025 quando sarà al tempo stesso costituzionalmente possibile e politicamente difficile evitare nuove elezioni legislative. Come conseguenza delle quali non sembra evidente immaginare la fine della tripartizione del quadro politico francese. Ma quando, come oggi, non è facile prevedere il domani è meglio esimersi da previsioni sul più lungo periodo.

Si può comunque fare una osservazione di ordine comparativo. Se si lascia da parte il sistema di partiti vigente in Gran Bretagna da tempi immemorabili, quello che riduce in genere la competizione fra due partiti, si può osservare che in sistemi a pluralismo partitico, che implicano in genere governi di coalizione, le possibili modalità di formazione di un governo si riducono a tre:

1. Il modello tedesco che consiste nel formare una coalizione delle forze di centro che lascia all’opposizione le ali estreme, quando la somma di queste non è sufficiente a impedire il governo del centro;

2. La soluzione italiana dove la destra e la sinistra pro-europee e più o meno moderate, per ottenere la maggioranza in parlamento si tengono dentro forze radicali ma minoritarie in seno alla coalizione – quello che fa con discreto successo il governo Meloni che convive con la Lega di Salvini;

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3. Caso, questo più raro, competizione fra coalizioni di destra e di sinistra che potrebbero vincere le elezioni, ma dentro le quali la forza dominante è quella radicale e non quella moderata.

Nei prossimi mesi vedremo quali di queste strade prenderà un governo un po’ stabile di cui la Francia ha oggi più bisogno dell’Italia.



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