La fisica quantistica può spiegare la morte dell’anima? Questa domanda, che intreccia scienza, filosofia e religioni, attraversa le pagine di Oltre l’invisibile. Dove scienza e spiritualità si incontrano (Mondadori, Milano 2024; 301 pp.) di Federico Faggin. Il testo esorta a coltivare il connubio tra sapere scientifico e umanistico, invitando la scienza, in particolare la fisica quantistica, a non limitarsi alla mera osservazione empirica attraverso esperimenti laboratoriali, ma a porsi interrogativi che tocchino l’essenza e l’umanità dell’individuo, superando il materialismo riduzionistico ereditato dalla fisica classica: «Il metodo scientifico si può estendere anche alla ricerca interiore in prima persona» (p. 51).
Di conseguenza, Oltre l’invisibile propone un’ontologia esistenzialistica muovendo dalle implicazioni filosofiche del principio di indeterminazione di Werner K. Heisenberg, il quale afferma, come è noto, che la realtà si riduce a un insieme di elettroni che interagiscono fra loro, ma di cui non è possibile conoscere contemporaneamente la velocità e la posizione. Le componenti elementari del mondo che ci circonda risultano cioè conoscibili soltanto mediante un’approssimazione, dacché contraddistinte da un’indeterminatezza di fondo: «Ogni oggetto macroscopico è costituito da un grandissimo numero di eventi quantistici non-correlati […]. L’universo deterministico e riduzionistico della fisica classica emerge dall’universo olistico, indeterministico e probabilistico più profondo della fisica quantistica» (p. 65). Tale indeterminatezza, peraltro, caratterizza ogni stato quantistico, rendendolo unico e irriproducibile, secondo il teorema di non-clonazione, che asserisce che «uno stato quantistico puro non si può clonare» (p. 18).
Ma non è tutto. Faggin rileva infatti come il principio di indeterminazione suggerisca una sinonimia tra il conoscere e il creare: l’indeterminatezza irriducibile degli elettroni implica che ogni misurazione li determini “creando” l’osservato nella misurazione. Per dirla in termini meno speculativi, l’osservatore, interagendo con il campo quantistico, provoca il “collasso della funzione d’onda” il quale «manifesta la particella in una posizione possibile» (p. 72), stabilizzandola in un centro determinato dalla sua relazione a sé stesso.
La realtà heisenbergiana, in sintesi, si riduce a campi quantistici, stati eccitati in movimento perpetuo, definiti “reali” solo se conosciuti e quindi creati, inconoscibili adottando i canoni classici della fisica, secondo cui «il mondo fisico degli oggetti che si muovono e interagiscono nello spazio-tempo è tutto ciò che esiste, e la sua esistenza è indipendente dall’osservatore». La fisica classica non contempla che la particella corrisponda a «un’onda di probabilità che si propaga simultaneamente in tutte le direzioni possibili, per cui le onde, combinandosi, possono anche interferire tra loro. […] L’onda di probabilità non descrive la posizione di una particella, ma le probabilità che si hanno di trovare tale particella in ciascuna delle finite, o addirittura infinite possibili posizioni, quando si fa la misura […] Lo stato che si manifesterà però non è predicibile da nessuna legge, ed è attribuito a pura randomness» (pp. 71-2).
Ebbene, per formulare una contestazione teorica oltre che sperimentale della scienza moderna, Faggin traduce in termini strettamente filosofici lo scenario schiuso attraverso categorie della fisica quantistica, spingendo l’analisi scientifica verso una forma di metafisica (un supporto filosofico della teoria neuroscientifica QIP di D’Ariano-Faggin) definita Nousym.
Secondo Nousym, l’informazione che qualifica ogni campo quantico reca proprietà uniche e non comunicabili (secondo il principio di non-clonazione), risultando assimilabile agli stati di coscienza, ai “qualia”: «Possiamo quindi dire che la coscienza può essere una proprietà dei sistemi quantistici che si trovano in uno stato puro» (p. 18). Tali stati coscienziali-quantistici, prosegue Faggin, esigono un supporto ontologico entro cui ancorarsi, alludendo a una realtà «profonda da cui emerge l’informazione quantistica» (p. 67); essi possono venire considerati come enti dotati di una coscienza (Unità coscienziali, denominate in Oltre l’invisibile UC, capaci di realizzarsi come “seity” – concetto perlopiù sovrapponibile a quello di UC, ma non pienamente sinonimico) che consente loro di agire liberamente: «La coscienza non è un ente, ma una proprietà che appartiene a enti coscienti irriducibili generati da Uno e chiamati unità di coscienza. Le UC sono le seity elementari auto-coscienti» (p. 79).
In questo senso, si legge in Oltre l’invisibile, il già citato collasso della funzione d’onda potrebbe essere spiegato precisamente attraverso la libertà delle seity, rappresentando il risultato di una decisione incondizionata della particella eccitata: «La fisica quantistica non può predire il collasso della funzione d’onda, cioè lo stato che si manifesterà, perché quello stato è un’espressione del libero arbitrio di seity che comunicano tra di loro» (p. 104).
Se così non fosse, del resto, sarebbe senz’altro lecito ascrivere alla più bieca casualità la “ragione” ultima di tutto ciò che accade, facendo per ciò dello stesso caso una sorta di divinità in grado di governare (certo al di là di ogni nostra comprensione) l’ordinamento degli eventi: «Il caso sarebbe Dio, il Dio del materialismo» (p. 87). L’ipotesi della libertà delle UC, della loro coscienzialità in grado di favorire lo sviluppo di una forma di personalità, per quanto contro-intuitiva o fantasiosa possa sembrare, risulta nondimeno sorprendentemente economica sul piano scientifico.
Altrettanto economico, e quindi necessario, appare quello che Faggin definisce il “postulato dell’essere”, il quale riconduce la molteplicità di enti dotati di coscienza a una forma di unità fondamentale, alla totalità (unica) degli infiniti campi quantistici: occorre ammettere «l’esistenza di un Tutto olistico, dinamico, che vuole conoscere se stesso e che ha le proprietà necessarie per conseguire tale conoscenza, ossia la coscienza e il libero arbitrio» (p. 77). Si tratta cioè di ricondurre il fondamento ontologico della realtà (presupposto dalla fisica quantistica e dalle sue informazioni coscienziali) alla realtà definita “Uno”, l’istanza identica e totalizzante nella molteplicità di enti coscienti e, a loro modo, unici. A Uno, inteso come Totalità, vengono ascritte allora la proprietà dell’olismo, la capacità di auto-conoscersi e un carattere dinamico; Uno si specifica in una molteplicità di parti per conoscere la propria unità, la quale si realizza non prescindendo, ma consolidandosi nella pluralità: «Ogni volta che Uno si conosce con un nuovo punto di vista, dà vita a un ente cosciente, una UC» (p. 83). La natura molteplice dell’unità di Uno, del resto, risponde al suo esercizio di auto-riconoscimento come Uno nella molteplicità delle parti (UC e seity, a loro volta identiche a Uno). Ciascuna seity «è una parte-intero di Uno: è un intero perché ne ha le stesse caratteristiche (olismo, dinamismo e volontà di conoscersi), ma ne è una parte perché rappresenta uno degli innumerevoli punti di vista con cui Uno conosce se stesso» (p. 20). All’interno di Nousym, in sintesi, Uno funge da principio ontologico fondamentale, spiegando l’origine della vita stessa e della sua evoluzione: esso innesca un processo evolutivo per sviluppare e articolare la propria unità: «Uno crea solo gli enti fondamentali della realtà: le UC che vogliono conoscere se stesse. Ma poi queste continuano a evolversi […]. La complessità è dovuta al fatto che i simboli devono rappresentare significati sempre più interconnessi, visto l’olismo di Uno» (p. 87). L’evoluzione olistica di Uno, di fatto, istituisce una forma di “panpsichismo quantistico” in cui tutto può essere definito cosciente, dal «granello di sabbia» (p. 73) alla pianta, quindi all’animale e a ogni forma di ecosistema: persino l’individuo umano, nel quadro di Faggin, può essere annoverato tra le espressioni (più complesse) di Uno, riflettendone le caratteristiche essenziali quale parte-intero, come «“quantum” di Uno» (p. 156).
Ma se così fosse, non sarebbe forse lecito ipotizzare che ogni individuo rechi con sé la coscienza di Uno, inscrivendosi all’interno di una coscienza più ampia, a cui potrebbe finanche ricongiungersi dopo la morte?
A tale domanda, Oltre l’invisibile risponde affermativamente, ammettendo che la seity in cui l’individuo umano consiste si esprima soltanto ad interim nella realtà fisica ed “egologica” del corpo, la cui morte non comporta affatto l’annichilimento della coscienza: «Siamo esseri spirituali, seity/ego, temporaneamente imprigionati in un corpo fisico simile a una macchina […] la morte riguarda soltanto il corpo fisico, non la coscienza, che è una proprietà delle seity, che esistono in una realtà assai più vasta» (pp. 158 e 219).
L’istanza anti-materialista delineata in Oltre l’invisibile, a questo punto, raggiunge il proprio apice: la coscienza (quale derivato di Uno) viene indicata da Faggin come antecedente e sovraeminente rispetto al corpo. Al netto di quanto sostenuto dalle prospettive scientifiche materialiste, la psiche non si riduce a mero epifenomeno della corporeità, rappresentando la cifra costitutiva dell’essere umano, poiché sviluppata già sempre all’interno dei campi quantici semplici: «Noi non siamo il corpo, ma il corpo è una struttura ausiliaria della nostra vera natura, di chi siamo veramente» (p. 56)
Eppure, in Oltre l’invisibile, il rifiuto del materialismo – e quindi dell’epifenomenalismo – non ha conseguenze soltanto sul piano cosmologico, ma anche su quello etico. Soltanto non riducendo l’essere umano a un meccanismo materiale, difatti, diviene possibile pensare una forma di relazione tra individualità (UC o seity) che non consista nella loro manipolazione o strumentalizzazione: l’assunzione di una forma di coscienza complessa che trascende il meccanicismo materialista potrebbe spiegare la differenza tra essere umano e macchina, rivelando che «siamo molto più di una macchina, e anche il nostro corpo è infinitamente più complesso di un computer, che è oggi la macchina più complessa che conosciamo» (p. 158). Faggin invita così a distinguere la coscienza computazionale che può essere ascritta ai computer da quella che invece qualifica l’essere umano in quanto cosciente della propria stessa coscienza, e quindi capace di un’intelligenza creativa «non algoritmica che nasce come significato nella coscienza della seity. Questa creatività non è accessibile a nessun computer» (p. 239). Del resto, solo l’assunzione di una coscienza libera e creativa può rendere inoltre pensabile qualcosa come il senso di «responsabilità», che rappresenta «il passo indispensabile per avanzare nel proprio progresso spirituale»; occorre quindi essere coscienziosi rispetto a qualsiasi forma di esistenza: questa è «la più grande delle nostre responsabilità, perché il nostro pianeta è la casa di tutti e il suo ecosistema va rispettato, curato e amato» (p. 182).
In ultima analisi, Faggin, prendendo spunto da una metafisica ispirata alle scoperte scientifiche più recenti, ambisce a riscoprire il valore etico imprescindibile dell’essere umano, un valore che, come sottolinea Viviana Sardei nella prefazione del testo, «è stato negato dagli scienziati materialisti» (p. 16). Le pagine di Oltre l’invisibile mirano a contestare toto cælo la polarizzazione del dibattito che contrappone filosofia e scienza, invitando a considerare un’alternativa: la loro collaborazione e cooperazione al di là dell’anacronistico aut-aut tra spiritualità e logicismo che ne interdice il dialogo. Rilanciando la convinzione espressa con forza alcuni anni fa in un’intervista dalla direttrice generale del CERN Fabiola Gianotti, che la scienza abbia bisogno della filosofia, Faggin tratteggia la cornice di un sodalizio sincero tra fisica e metafisica, promuovendo il rigore della prima soltanto per ricordarle che oggi essa «ha dimenticato il buon senso e la logica della filosofia perenne» (p. 199). D’altra parte, si potrebbe concedere similmente che lo stesso esercizio filosofico, da un secolo a questa parte, ha perso di vista la centralità della domanda sulla vita, sulla umana natura, domanda che potrebbe – o dovrebbe – essere riformulata anche accogliendo le suggestioni filosofiche di scienziati del calibro di Faggin.
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