Salari a Napoli, la metà di Milano. In Campania sono 5 volte più bassi

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di
Emanuele Imperiali

L’indagine della Cgia di Mestre: pesano economia più debole, contratti atipici e lavoro nero

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A Napoli si guadagna mediamente poco più della metà di Milano, 1.416 euro a fronte di 2.642. Sebbene le gabbie salariali siano state abolite nel 1972, oltre 50 anni di applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro non hanno mitigato le marcate differenze retributive tra le diverse aree del Paese. Se si analizzano i salari lordi annui su scala regionale, il divario è ancor più macroscopico: in Lombardia sfiorano i 109mila euro lordi, in Campania si fermano a 21.600, ben cinque volte meno. Le stime sono elaborate dalla Cgia di Mestre, sulla base dei dati dell’Osservatorio Inps per i lavoratori dipendenti. I dati non riguardano ovviamente gli impiegati pubblici, per i quali, a parità di funzione, gli stipendi sono uguali in tutt’Italia, al Nord come al Sud. Ma dalla pubblica amministrazione è ormai in atto da tempo una vera e propria fuga, non solo al Nord ma anche nel Mezzogiorno, proprio a causa di stipendi troppo bassi. Infatti, nonostante un aumento del 23% in 10 anni, le retribuzioni pubbliche italiane non sono al passo con quelle europee: 1.978 euro contro 2.973. 

L’interrogativo è inevitabile: come si spiegano disuguaglianze retributive così marcate? I motivi sono molti e diversi tra loro. Innanzitutto, incide non poco il carovita, laddove a Milano i costi di una casa, di un pranzo o una cena al ristorante, dello stesso carrello della spesa al supermercato, sono enormemente superiori nel capoluogo lombardo rispetto a quello campano. Poi, c’è una seconda ragione, strettamente connessa alla produttività del lavoro, nettamente superiore al Nord rispetto al Sud. L’economia napoletana si basa maggiormente su settori tradizionali come il commercio locale, il turismo mordi e fuggi, la piccola impresa a basso tasso di innovazione, settori che spesso offrono salari più bassi rispetto a quelli ad alta produttività. Milano è, invece, il principale centro economico e finanziario d’Italia, con una forte presenza di multinazionali, aziende tecnologiche, banche e industrie ad elevata produttività, che tendono a pagare salari più alti per attrarre competenze qualificate.




















































Ancora, i valori retributivi medi sono condizionati negativamente dalla presenza del precariato, contro il quale i sindacati confederali hanno avviato da tempo una vera e propria campagna. Si va dai contratti a termine al part-time involontario, dagli stagionali agli intermittenti, ai collaboratori formalmente autonomi ma di fatto dipendenti con un piede fuori dalla porta delle aziende, tutte tipologie molto diffuse nel Mezzogiorno, soprattutto tra i giovani e le donne. Inoltre, l’elevata presenza del lavoro informale o irregolare, sempre molto difficile da quantificare, che tende per forza di cose a comprimere i salari medi. Infine, le imprese meridionali sono nella stragrande maggioranza piccole e piccolissime, mentre al Centro-Nord sono molto più diffuse quelle medie e grandi, in grado di versare stipendi più elevati, per di più accompagnati da significativi benefit che spaziano dalla sanità privata alla previdenza integrativa.

La Svimez ha calcolato che la retribuzione media oraria, al Centro-Nord, si attesta sugli 11,69 euro, mentre nel Mezzogiorno scende a 10,40, con una differenza di circa un euro e mezzo per ogni ora lavorata. È la più evidente testimonianza del cosiddetto «lavoro povero», una caratteristica che si fa sempre più pericolosamente strada nei salari degli occupati meridionali. Sempre Svimez ha quantificato in un meno 12% rispetto al 2008 le retribuzioni lorde reali per addetto nelle regioni meridionali, rispetto al meno 3% degli stipendi pagati nelle aree settentrionali e centrali. La verità è che esiste un disallineamento strutturale e non solo congiunturale tra salari e prezzi che anche i più recenti rinnovi dei contratti nazionali di categoria non sono riusciti a scalfire. Se oggi il monte salari lordo erogato a 17,3 milioni di lavoratori dipendenti privati in Italia ha toccato i 411,3 miliardi, oltre il 60% dell’ammontare complessivo è stato pagato al Nord.

Va, però, tenuto presente che le retribuzioni nette al Sud sono mediamente aumentate in misura maggiore di quelle lorde per effetto soprattutto della decontribuzione, che è stata rinnovata per il 2025 ma in parte. Il governo, infatti, ha ripescato solo all’ultimo momento nella manovra di Bilancio una mini-decontribuzione per le regioni meridionali, con gli sgravi che calano, però, dal 30% al 25%. E avrà alcune limitazioni: vale solo per le micro, piccole e medie imprese, con 250 lavoratori al massimo, avrà un importo massimo di 145 euro al mese e solo per i lavoratori assunti a tempo indeterminato al 31 dicembre 2024. Per l’anno 2026 e 2027 scenderà ulteriormente al 20%.  In definitiva, vale oggi ancor più del passato la tesi sostenuta da Mario Draghi, il quale nel suo Rapporto sulla competitività ha lanciato un monito sulle debolezze strutturali del modello economico europeo, che si basa su salari bassi e una forte dipendenza dalle esportazioni. Secondo il predecessore di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, questa strategia non è più sostenibile nell’attuale contesto globale, caratterizzato da questioni economiche e geopolitiche sempre più complesse.

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22 dicembre 2024 ( modifica il 22 dicembre 2024 | 07:32)

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